_Inidoneità alla mansione: uno spunto oltre l’emergenza.

L’art. 46 del Decreto Cura Italia ha introdotto un generale divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604, a far tempo dal 17 marzo 2020 sino al 17 agosto 2020, per effetto dell’estensione del periodo di durata del divieto operato dall’art. 80 del c.d. Decreto Rilancio.

Il 24 giugno 2020, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con la nota n. 298/2020, ha precisato che la previsione del Decreto Cura Italia ha una portata generale e, pertanto, devono essere ricomprese nel divieto tutte le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, compresa anche l’ipotesi di licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione del lavoratore.

L’Ispettorato giunge a tale precisazione sul presupposto che, in caso di inidoneità sopravvenuta del lavoratore, il datore di lavoro, prima di procedere con il licenziamento, deve verificare la possibilità o meno di adibire il lavoratore ad altre mansioni, anche di livello inferiore, adempiendo così all’obbligo di repechage, previsto per le ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Ma se quella appena indicata è la regola che secondo l’Ispettorato varrà fino al prossimo 17 agosto, una volta cessato il “periodo emergenziale”, quando si potrà in modo legittimo intimare il licenziamento per inidoneità alla mansione?

Secondo alcune delle più recenti decisioni della giurisprudenza, il giustificato motivo di licenziamento, in caso di sopravvenuta infermità permanente del lavoratore, non sussiste quando il lavoratore può essere adibito ad una diversa attività, compatibile con il suo stato di salute e che sia riconducibile alle mansioni assegnate o profilo professionale, o anche a mansioni inferiori. La diversa attività deve, in ogni caso, essere utilizzabile nell’impresa, nell’ambito dell’autonomia e della libertà di iniziativa economica del datore di lavoro, poiché entrambi diritti costituzionalmente garantiti (Corte di Cassazione 3.8.2018, n. 20497).

Il datore di lavoro non è, infatti, tenuto a stravolgere la propria organizzazione aziendale ma deve verificare la possibilità di adattamenti organizzativi che comportino un onere finanziario proporzionato alle dimensioni e caratteristiche dell’impresa e rispettino le condizioni di lavoro degli altri dipendenti (Corte di Cassazione 10.7.2019, n. 18556). Anche il legislatore ha, infatti, previsto da alcuni anni che, per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro, sia pubblici che e privati, sono tenuti ad adottare “accomodamenti ragionevoli”, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, per garantire alle persone disabili la piena eguaglianza con gli altri lavoratori (Art. 3, comma 3bis, D.lgs. 216/2003).

Il licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta del lavoratore, derivante da una condizione di “handicap” è, così, ritenuto illegittimo, in caso di accertamento della possibilità per il datore di adottare soluzioni ragionevoli per consentire al lavoratore divenuto inidoneo di svolgere il lavoro (Corte di Cassazione 21.5.2019, n. 13649; Corte di Cassazione 19.3.2018, n. 6798).

Pertanto, affinché il licenziamento possa ritenersi legittimo, il datore di lavoro sarà tenuto a provare di non poter in alcun modo destinare il lavoratore ad altre mansioni (anche inferiori) compatibili con lo stato di salute ed attribuibili senza alterare l’organizzazione produttiva, ma sempre che il dipendente non abbia già manifestato a monte il rifiuto di qualsiasi diversa assegnazione (Corte di Cassazione, 21.3.2018, n. 7065).