_Jobs Act, another brick in the wall. L’ultima decisione della Corte Costituzionale.

Si si volesse provare ad adattare il ritornello della nota hit musicale degli Anni ’80, la si potrebbe intonare “Cosa resterà delle tutele crescenti”.

E la ragione del nuovo “ritornello” è presto spiegata: con un comunicato stampa pubblicato il 25 giugno 2020, la Corte Costituzionale ha reso noto sul proprio sito istituzionale di aver dichiarato l’incostituzionalità di un’altra delle norme attuative il c.d. Jobs Act: questa volta, la norma “bocciata” è stata l’Art. 4 del D.lgs. 23/2015.

Con questa decisione della Consulta, sono ora due le norme incostituzionali del decreto legislativo che, dal marzo 2015, ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo regime sanzionatorio per i licenziamenti intimati ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015: le c.d. tutele crescenti.

Nuovo regime che, riassumendolo in poche battute, limita nelle imprese con più di quindici dipendenti la possibilità di riconoscere la tutela reintegratoria solo nell’ipotesi di accertamento della nullità del licenziamento o in altre ipotesi previste per legge, nonché in caso di “manifesta insussistenza del fatto materiale contestato” (cfr. Art. 2 e Art. 3, comma 2 D.lgs. 23/2015). Per le restanti ipotesi, la tutela spettante al licenziato è solo di tipo economico e da calcolarsi sulla base dell’anzianità di servizio aziendale (cfr. Art. 3, comma 1 e Art. 4, D.lgs. 23/2015).

Regole, quelle delle tutele crescenti, innovative rispetto al “vecchio” Art. 18 St. lav., così come innovativa era l’idea di flessibilità in entrata e in uscita dal mondo del lavoro prevista dall’Art. 1, comma 7 della L. 183/2014 (c.d. Jobs Act), legge delega di cui il D.lgs. 23/2015 era, appunto, uno dei decreti attuativi.

Le disposizioni del D.lgs. 23/2015 sono, però, finite ben presto di fronte alla Consulta per valutarne la conformità con i principi costituzionali.

E così, nella sua prima sentenza, depositata l’8 novembre 2018, la Corte Costituzionale stabiliva che il parametro risarcitorio previsto dall’Art. 3, comma 1 del D.lgs. 23/2015, in quanto “fisso ed uniforme” (due mensilità per ogni anno di anzianità di servizio) doveva ritenersi in contrasto con i principi di ragionevolezza ed uguaglianza. Venuto meno il criterio aritmetico previsto dal legislatore, ogni Giudice ha potuto quantificare l’indennità spettante al dipendente licenziato secondo la propria discrezione, limitandosi a rispettare l’intervallo minimo (6 mensilità) e massimo (36 mensilità) indicato dal D.lgs. 23/2015, come modificato dal c.d. Decreto Dignità (D.L. 87/2018). Quantificazione che, leggendo alcune delle pronunzie che hanno applicato i principi enunciati dalla Corte Costituzionale, è stata basata non solo sull’anzianità di servizio, ma anche su altri criteri desumibili dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti come, ad esempio, il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti (si vedano, ad esempio, Tribunale di Roma, 19 maggio 2020 oppure Tribunale di Napoli, 26 febbraio 2019).

La nuova decisione della Corte Costituzionale del 24 giugno 2020, interessa, invece, la regola che prevede la sanzione applicabile in caso di licenziamento affetto da un vizio di natura formale e procedurale, vale a dire il difetto di motivazione o la violazione del procedimento disciplinare ex Art. 7 St. Lav. (cfr. Art. 4 del D.lgs. 23/2015). Anche in questo caso, spetta al licenziato un’indennità economica pari a una mensilità per ogni anno di anzianità di servizio, compresa tra un minimo di due e un massimo di dodici mensilità.

Secondo il Tribunale di Roma che lo scorso 9 agosto 2019 ha rimesso la norma avanti la Corte Costituzionale limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento del calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, le ragioni per cui l’Art. 4 del D.lgs. 23/2015 dovrebbe ritenersi in contrasto con i principi di ragionevolezza e uguaglianza sono analoghe a quelle già indicate per l’identica quantificazione prevista dall’Art. 3, comma 1 del D.lgs. 23/2015.

Infatti, a parere del Tribunale di Roma, una norma che predetermina con un criterio fisso e uniforme l’indennità risarcitoria spettante al lavoratore licenziato, da un lato, non sarebbe correlata al danno in concreto sofferto e, dall’altro lato, potrebbe non aver alcuna efficacia dissuasiva sul datore di lavoro, soprattutto nelle ipotesi di ridotta anzianità di servizio. Peraltro, secondo il Tribunale di Roma, anche un licenziamento affetto da vizio formale o procedurale sarebbe, comunque, illecito per cui dovrebbe dar luogo ad un risarcimento adeguato e personalizzato. E tanto non avviene quando l’indennità è parametrata alla sola anzianità di servizio.

Da ultimo, si legge nell’ordinanza di Roma, il parametro “fisso e rigido” dell’Art. 4 sanziona in modo identico violazioni che possono essere sia produttive di danni differenti che di diversa gravità, così violando i principi di uguaglianza e ragionevolezza che vietano l’omologazione di situazioni differenti.

Simili alle argomentazioni del Tribunale di Roma sono i motivi che si leggono nell’ordinanza del Tribunale di Bari che, a sua volta, già il 18 aprile 2019, aveva rimesso l’Art. 4 davanti alla Corte Costituzionale, denunziando anch’essa il contrasto ai principi di uguaglianza e ragionevolezza.

Ora che la decisione della Corte Costituzionale è stata resa nota, occorre attendere il deposito delle motivazioni non solo per comprendere i motivi della dichiarazione di incostituzionalità, ma anche per la sua applicazione “concreta” nei Tribunali ove i giudici dovranno attenersi ai principi che vi saranno enunciati. Applicazione che potrà implicare un innalzamento delle indennità che saranno liquidate in ipotesi di licenziamento affetto da vizio formale e procedurale, non predeterminabile dall’impresa, ma rimesso alla valutazione del giudice competente.

In poche parole, un’altra “non piccola” e “non desiderata” …dose di incertezza normativa!