_Una telefonata allunga la vita…. ma fa perdere il posto di lavoro!

Una telefonata allunga la vita…. ma fa perdere il posto di lavoro!
di Sharon Reilly e Marilena Cartabia

 

Forse immaginava che una telefonata gli avrebbe allungato la vita, proprio come il prigioniero nello spot televisivo di alcuni anni fa: peccato che nel caso deciso dalla Cassazione, il lavoratore sia stato licenziato e le sue giustificazioni sull’uso illecito del telefono aziendale ritenute infondate.

Nella recente sentenza del 12 febbraio 2018, la Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento del dipendente che aveva compiuto una lunghissima serie di telefonante, non correlate alle esigenze di servizio e non autorizzate, tutte effettuate dai locali aziendali sia prima che dopo l’orario di lavoro.
Per giustificare la sua condotta, il lavoratore aveva sostenuto di essere depresso e vittima di condotte mobbizzanti del datore di lavoro, per cui le telefonate erano state fatte durante i momenti “più difficili” della giornata, quando aveva bisogno di sentire delle voci amiche.
Secondo i giudici, però, il lavoratore, foss’anche stato affetto da depressione, non avrebbe dovuto usare in modo indebito il telefono aziendale, cagionando anche un danno economico al datore, ma avrebbe dovuto ricorrere alle cure mediche del caso. Infatti, pur trovandosi in uno stato di debolezza psicologica, il dipendente era ben in grado di accorgersi che la sua condotta era contraria al dovere di lealtà verso il datore di lavoro.
Pertanto, il licenziamento era stato ritenuto legittimo vista la contrarietà ai principi di correttezza e buona fede integrato dall’abuso di strumenti aziendali commesso dal dipendente.

Principi questi ultimi invocati dalla Cassazione anche nella sentenza del 16 gennaio 2018 relativa ad un’ipotesi di demansionamento.
In questo secondo caso, un lavoratore, dopo essere stato adibito per circa due mesi a mansioni di livello inferiore, aveva deciso di inviare una diffida al proprio datore e, dal giorno successivo, di assentarsi senza motivo.
Immediata la reazione dell’azienda: licenziamento per assenza ingiustificata.
Anche in questo caso, i giudici della Cassazione osservano che il lavoratore non può rifiutarsi aprioristicamente di svolgere la prestazione lavorativa perché tale comportamento è contrario al dovere di osservare le disposizioni impartite dal datore di lavoro. Pertanto, qualora si ritenga demansionato, il dipendente può chiedere tutela al giudice, anche in via cautelare, ma non può assentarsi senza motivo dal lavoro: in questo caso, infatti, la sua reazione alla condotta del datore sarebbe sproporzionata e contraria a buona fede, mentre il successivo (eventuale) licenziamento sarebbe ritenuto legittimo.

In conclusione, entrambi i casi ricordano come non esista un diritto di “autotutela fai da te” del lavoratore che si ritenga vittima di condotte scorrette del proprio datore di lavoro: i rimedi che in queste situazioni il dipendente può esperire sono altri, per cui ogni diversa condotta potrebbe integrare violazione dei principi di correttezza e buona fede punibile, nei casi più gravi, anche con il licenziamento.