_rassegna stampa e news

Testata: DataManager-WORK 4.0
Titolo: CONTROLLO DEL PC AZIENDALE: SI O NO?

 

di Andrea Savoia e Marilena Cartabia 

 

La Cassazione ha fatto chiarezza sulla possibilità di controllare i PC assegnati ai dipendenti, a patto che sia assicurato il corretto bilanciamento tra esigenze di protezione dell’azienda e di tutela del lavoratore. 

 

Risale a poche settimane fa la notizia di un attacco ransomware subito dalla Regione Lazio che ha disabilitato i sistemi informatici, compreso il portale di registrazione alle vaccinazioni COVID-19, e che si presume essere “partito” dal pc di un dipendente.

Notizia che, non solo ha fatto il giro del mondo, ma ha riacceso l’attenzione di molte aziende su di un tema correlato alla sicurezza informatica: la possibilità di eseguire controlli sui pc aziendali assegnati ai dipendenti.

E proprio nei giorni scorsi, la Corte di Cassazione (sentenza 22 settembre 2021, n. 25732), ha affrontato il problema occupandosi della vicenda di una Fondazione “vittima” di un virus inseritosi nella rete aziendale attraverso un file scaricato da una lavoratrice da un sito estraneo l’attività lavorativa.

In particolare, la Suprema Corte si è occupata dei controlli c.d. difensivi, vale a dire quelli che, secondo parte della giurisprudenza, possono esulare dalle previsioni dell’Art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970).

Quest’ultima norma, infatti, dopo le modifiche del 2015, prevede che gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti di controllo possono essere installati per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza sul lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale se viene raggiunto un accordo con la rappresentanza sindacale aziendale (RSU o RSA) oppure, in caso di mancato accordo o di assenza in azienda di strutture sindacale, previa autorizzazione dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro. La procedura appena ricordata non si applica invece agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la propria prestazione ed a quelli di registrazione degli accessi e delle presenze.

Infine, le informazioni raccolte in presenza delle condizioni normative sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro purché sia data adeguata informazione al lavoratore sulle modalità d’uso e di effettuazione dei controlli, oltre che nel rispetto della privacy.

Chiariti i principi normativi, la Cassazione riconosce l’esistenza di due tipologie di controlli c.d. difensivi.

La prima, finalizzata alla tutela del patrimonio aziendale, riguarda tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti che nello svolgimento della loro prestazione possono venire a contatto con il patrimonio aziendale) per cui è soggetta alle previsioni dell’Art. 4 dello Statuto: se il datore non rispetta le modalità e procedure previste dalla legge, il controllo sarà ritenuto illegittimo.

La seconda, invece, presuppone la commissione di un grave illecito del lavoratore nello svolgimento della prestazione lavorativa e non è soggetta ai “limiti” dell’Art. 4: se si hanno fondati sospetti di un grave comportamento, il datore può svolgere i controlli anche se non ha fornito adeguata informazione sulle modalità d’uso e sulla effettuazione delle verifiche di controllo. In questa seconda ipotesi, per evitare che sia annullata ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore, la Corte Suprema raccomanda il rispetto di due limiti: i) l’attività di controllo deve essere mirata e avvenire “a posteriori”, ossia dopo che si è avuto il fondato sospetto del comportamento illecito; ii) i dati utilizzabili sono solo quelli raccolti da quel momento e non altri acquisiti in precedenza.

In poche parole, in presenza di un fondato sospetto di illecito con conseguenti gravi danni, potrebbero essere possibili controlli sul pc aziendale, anche in mancanza di preventiva informativa, purché ciò avvenga bilanciando le esigenze di protezione dei beni aziendali con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore. Anche per tale ragione, il controllo non potrà che riguardare dati acquisiti successivamente all’insorgere del fondato sospetto.

 

Avv.ti Andrea Savoia partner e Marilena Cartabia senior associate

UNIOLEX Stucchi & Partners www.uniolex.com

DM_NOVEMBRE 21

Testata: DataManager-WORK 4.0
Titolo: SMART WORKING E GDPR LA RESPONSABILITÀ DEL DATORE DI LAVORO

WORK 4.0

di Paola Gobbi e Silvia Fumagalli

Il datore di lavoro è considerato responsabile nel caso di furto di dati aziendali dal PC personale del dipendente che non è e non agisce come soggetto terzo

 Fa discutere la decisione del Tribunale Amministrativo di Varsavia del 13 maggio 2021, con cui viene confermato il provvedimento del Garante della Privacy polacco di irrogazione di sanzione amministrativa pecuniaria all’Università di Scienze della Vita di Varsavia perché responsabile del furto di dati personali degli studenti dell’ateneo dal PC privato di un dipendente.

Il caso sottoposto al Garante di Varsavia atteneva al furto di dati aziendali dal pc privato di un dipendente, il quale utilizzava il proprio device per svolgere l’attività lavorativa in smart working e sul quale aveva caricato dati relativi agli studenti dell’Ateneo. Secondo l’Autorità polacca, il datore di lavoro resta responsabile delle condotte del proprio dipendente e, in particolare, del data breach anche se il lavoratore utilizza un PC di sua proprietà perché il lavoratore non può essere considerato un lavoratore autonomo ma opera pur sempre per conto del datore di lavoro e perché ha ritenuto violate plurime disposizioni del GDPR, tra le quali, gli articoli 5, 24 e 32 da parte dell’Università. L’art. 5 stabilisce le regole per il trattamento dei dati personali, che devono essere rispettate dai soggetti che, autonomamente o insieme ad altri, determinano le finalità e le modalità del trattamento di dati personali. In particolare, i dati personali devono essere trattati in modo da garantirne adeguata sicurezza compresa la protezione da trattamenti non autorizzati o illeciti e da perdita, distruzione o danneggiamento accidentali, mediante adeguate misure tecniche o organizzative. Inoltre, i dati personali devono essere conservati in una forma che non consenta l’identificazione dell’interessato se non per il tempo necessario per le finalità per le quali i dati sono trattati. L’art. 24 prescrive che il titolare del trattamento, tenuto conto della natura, dell’ambito, del contesto e delle finalità del trattamento nonché del rischio di violazione di diritti e delle libertà delle persone fisiche, deve attuare misure tecniche e organizzative adeguate a garantire che il trattamento avvenga in conformità al regolamento e che lo possa dimostrare. L’art. 32, infine, dispone che l’amministratore è tenuto ad applicare misure tecniche e organizzative corrispondenti al rischio di violazione dei diritti e delle libertà delle persone fisiche con una diversa probabilità di accadimento e gravità di minaccia. Secondo il Garante polacco, la determinazione delle misure tecniche e organizzative adeguate è un processo in due fasi. In primo luogo, è importante determinare il livello di rischio connesso al trattamento dei dati personali, tenendo conto dei criteri di cui all’art. 32 GDPR e, quindi, occorre determinare quali misure tecniche e organizzative sono idonee a garantire il livello di sicurezza corrispondente a tale rischio. Oltre al rispetto delle suddette disposizioni, che impongono, se necessario, revisioni periodiche delle misure adottate e l’aggiornamento delle garanzie, il datore di lavoro deve verificare che i propri dipendenti osservino le regole adottate in materia di trattamento dei dati personali. Secondo il Garante polacco, proprio in linea con i principi comunitari di privacy by design e accountability, il datore di lavoro, quale titolare del trattamento, non solo deve adottare le misure tecniche e organizzative adeguate per garantire che il trattamento avvenga in conformità al regolamento e che lo possa dimostrare, ma deve altresì monitorare e verificare che le attività svolte dai propri dipendenti siano corrette e conformi a quanto previsto dal regolamento interno: la violazione da parte del lavoratore delle disposizioni assunte per il trattamento dei dati personali non esonera il datore da responsabilità in caso di data breach. Alla luce della decisione in esame e della imperante diffusione (per le note ragioni emergenziali) dello smart working, è quanto mai necessario predisporre procedure e regolamenti idonei a formare e informare i dipendenti sul corretto trattamento dei dati per non incorrere in responsabilità.

 

Avv.ti Paola Gobbi partner e Silvia Fumagalli senior associate

UNIOLEX Stucchi & Partners www.uniolex.com

 

DM ottobre 2021

Testata: DataManager-WORK 4.0
Titolo: IL FUTURO DEL LAVORO REMOTO NON SIGNIFICA SMART 

WORK 4.0

di Andrea Savoia e Marilena Cartabia

La crescita numerica dei lavoratori  che grazie al cloud possono svolgere le loro attività lontani dalla sede aziendale spinge verso un  modello di organizzazione più agile che richiede però nuove regole

E’ emerso dagli studi condotti nell’ultimo anno che alcune professioni già oggi possono essere svolte totalmente da remoto, mentre in un futuro prossimo per ogni lavoratore aumenterà l’attività che non richiederà presenza fisica presso una sede di lavoro o presso il cliente.

Due le motivazioni di questa trasformazione. Primo: alcuni lavori verranno svolti più agevolmente da macchine. Secondo: l’oggetto del lavoro non sarà la produzione di un bene fisico ma un bene immateriale o un servizio per cui essa non richiederà se non in minima parte di essere collocata in uno spazio fisico.

Di fronte a questi risultati, si dovrebbe iniziare a riflette su come regolare, favorire e attrarre le forme di lavoro digitale. Con una precisazione: il lavoro digitale non è quello svolto dai “famigerati” riders che svolgono la loro prestazione prevalentemente in modo tradizionale e fisico, ma è quel lavoro la cui domanda cresce costantemente, che fornisce possibilità di flessibilità (ad esempio, lavorare per più committenti) e richiede servizi e strumenti di lavoro diversi oltre a competenze qualificate. In sintesi, come indicato da diversi Osservatori, il lavoro digitale rappresenta non solo un “lavoro pulito” ma anche una frontiera del lavoro in cui possono essere sviluppati servizi e prodotti immateriali con dinamiche di offerta, competizione e utilizzo differenti.

Una volta individuato il perimetro del lavoro digitale, occorre riflettere su come costruire le condizioni per il suo corretto sviluppo.

Come in passato il lavoro tradizionale è stato oggetto di una disciplina articolata, allo stesso modo il lavoro digitale avrebbe necessità di una cornice regolamentare adeguata che, senza esser eccessivamente invasiva, consenta anche di evitare “derive” come, ad esempio, l’offshoring (vale a dire la possibilità di spostare il lavoro digitale ovunque senza costi). E questo perché fattori strategici per lo sviluppo di tale lavoro sono tanto le infrastrutture immateriali quanto la regolamentazione dei rapporti di lavoro.

La recente esperienza dello smart-working “semplificato” ha, infatti, dimostrato come il nuovo lavoro digitale necessiti di regole adeguate alla flessibilità ad esso sottesa per cui, anche a livello normativo e contrattuale, si potrebbe immaginare uno sviluppo di questa tipologia contrattuale che consenta, ad esempio, di lavorare per più committenti senza un rigido regime orario oppure di cambiare più agevolmente profilo professionale/mansioni e di ricevere una remunerazione commisurata al risultato raggiunto o al servizio prestato.

In secondo luogo, a fronte di lavori che saranno prevalentemente svolti fuori dai tradizionali luoghi di lavoro, occorrerà garantire la presenza di servizi di assistenza, formazione e assicurazione coerenti con l’esigenza di assicurare un corretto bilanciamento tra tempo lavoro e vita privata.

Non da ultimo, al pari di quanto è oggi in previsione per attirare investimenti e per consentire la transizione ecologica, potrebbe rendersi opportuna l’introduzione di un regime fiscale agevolato per il lavoro digitale in ragione dei vantaggi in termini di costi ambientali e il minor utilizzo di infrastrutture pubbliche.

L’approvazione del PNRR con le sue sei missioni (Digitalizzazione, Innovazione, Competitività, Cultura; Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica; Infrastrutture per una Mobilità Sostenibile; Istruzione e Ricerca; Inclusione e Coesione; Salute) offre a sua volta spunti per arrivare a determinare delle regole coerenti con l’evoluzione del mondo del lavoro.

Se, allora, il Lavoro Digitale diventerà in futuro prevalente, occorre sin da oggi iniziare a costruirne le condizioni, anche normative, per accompagnarne la crescita in un quadro coerente che eviti l’instaurarsi di prassi incontrollate e controproducenti.

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Avv.ti Andrea Savoia, Partner e Marilena Cartabia, Senior Associate – UNIOLEX Stucchi & Partners www.uniolex.com

 

 

DM_SETTEMBRE 2021

Testata: DataManager-WORK 4.0
Titolo: LAVORO DA REMOTO DIRITTO ALLA DISCONNESSIONE

WORK 4.0

di Andrea Savoia e Silvia Fumagalli

 

Nel corso dell’ultimo anno, con la normativa emergenziale sono state introdotte specifiche norme a tutela dei lavoratori. Tra le ultime si segnala l’introduzione del diritto alla disconnessione del lavoratore agile, utile spunto di riflessione sul lavoro agile.

La Legge n. 61 del 6 maggio 2021 di conversione del Decreto Legge n. 30 del 2021 ha espressamente riconosciuto per il lavoratore in “smart working” e genitore di figli minori di sedici anni, uno specifico diritto a disconnettersi dalle strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche nel rispetto di eventuali accordi sottoscritti dalle parti e fatti salvi eventuali periodi di reperibilità concordati.

Il legislatore ha, altresì, esplicitamente previsto che l’esercizio del diritto alla disconnessione, necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi.

È stato, così, introdotto per la prima volta, seppure nell’ambito della normativa emergenziale, uno specifico diritto alla disconnessione per il lavoratore agile,

Nessuna analoga previsione è, infatti, contenuta nella Legge 81/2017 che regolamenta il lavoro agile e che, in materia di disconnessione, prevede più genericamente che l’accordo che disciplina lo smart working individua i tempi di riposo del lavoratore, nonché le misure tecniche ed organizzative necessarie per assicurare la disconnessione dalle strumentazione tecnologiche di lavoro.

Il diritto alla disconnessione introdotto dalla Legge 61/2021, seppure previsto dalla normativa emergenziale, potrà avere impatto sugli accordi individuali di smart working necessari per regolare e disciplinare il lavoro agile nel periodo post pandemia da parte dei datori di lavoro.

Se, infatti, nel corso della pandemia il datore di lavoro ha potuto ricorrere alla procedura semplificata di comunicazione del lavoro agile, procedura prorogata sino al 31 dicembre 2021 con la Legge n. 87 del 17 giugno 2021 di conversione del D.L. 22 aprile 2021 n. 52 (c.d. Decreto Riaperture), nel post pandemia sarà necessario l’accordo tra le parti.

Nell’accordo le parti potranno individuare, facendo tesoro delle modalità in cui si è svolto il lavoro agile negli ultimi mesi, delle fasce di reperibilità all’interno delle quali il lavoratore si impegna ad essere connesso o collegato e a rispondere all’email e/o al telefono, il divieto generale per i responsabili e/o colleghi a inviare comunicazioni o effettuare telefonate al di fuori di determinati orari (fatte ovviamente salve esigenze tecnico-produttive o esigenze di reperibilità), la possibilità per il lavoratore, al di fuori delle fasce di reperibilità, di organizzare la propria attività lavorativa conciliando, secondo le proprie esigenze, i tempi di vita e di lavoro.

Le strumentazioni con le quali il lavoratore presta l’attività in modalità agile consentono, infatti, una reperibilità ed una connessione costante e continua, che potrebbe minare lo scopo per il quale era stato introdotto il lavoro agile ossia incrementare la competitività e agevolare il work life balance che potrebbe essere minato dall’essere “sempre connessi” alle strumentazioni aziendali da parte dei lavoratori ed dalla difficoltà di separare i tempi di vita con quelli di lavoro, con conseguenze anche sul piano psicofisico e potenziali responsabilità dei datori di lavoro.

 

 

Avv.ti Andrea Savoia, Partner e Silvia Fumagalli, Senior Associate – UNIOLEX Stucchi & Partners www.uniolex.com

 

DM LUGLIO/AGOSTO 2021

Testata: DataManager-WORK 4.0
Titolo: BLOCCO DEI LICENZIAMENTI E DIRIGENTI: I GIUDICI SI DIVIDONO.

WORK 4.0

di Andrea Savoia e Marilena Cartabia

 

Con due sentenze recenti, il Tribunale di Roma ha deciso in modo diverso se includere o meno anche i dirigenti nel c.d. blocco dei licenziamenti individuali per motivo oggettivo.

 Licenziare un dirigente per “risparmiare” sui costi aziendali? Domanda non banale, almeno fino al prossimo 30 giugno 2021, quando potrebbe cessare il c.d. “blocco dei licenziamenti”.

Come noto, da marzo 2020, dopo l’entrata in vigore dell’Art. 46 del Decreto Cura Italia (D.L. 18/2020), è stato imposto a tutte le aziende di non avviare procedure di licenziamento collettivo e di non intimare licenziamenti per motivi oggettivi, senza operare alcuna distinzione in base al numero dei dipendenti. Questo divieto è stato da ultimo confermato, nella sua formulazione più ampia, prima dalla Legge di Bilancio per il 2021 (Legge n. 178/2020) e poi dal Decreto Sostegni del 22 marzo 2021 (D.L. 41/2021).

Fin dalla sua introduzione, però, il c.d. blocco dei licenziamenti ha destato molte perplessità e interrogativi, primo tra tutti quello di riuscire ad individuare le ipotesi escluse dal novero dei casi “bloccati”.

E, proprio sulle ipotesi escluse, il Tribunale di Roma si è diversamente espresso a poche settimane di distanza.

Con una prima decisione del 26 febbraio 2021, il Tribunale di Roma ha giudicato invalido il licenziamento intimato ad un dirigente, a luglio 2020, per soppressione della posizione lavorativa, ritenendolo contrario alla norma imperativa dell’Art. 46 del c.d. Cura Italia.

Secondo il Giudicante, lo scopo del c.d. blocco sarebbe quello di evitare che il danno pandemico venga “scaricato” sui lavoratori, esigenza comune anche ai dirigenti stante la maggior elasticità del regime normativo e collettivo loro applicabile e confermata dalla loro inclusione nelle tutele applicabili in caso di licenziamento collettivo.

Nella seconda vicenda, invece, il Chief Operating Officer della società impugnava il licenziamento intimatogli a maggio 2020 per soppressione della sua posizione, ritenendolo in contrasto con il divieto del c.d. Cura Italia.

Impugnazione che il Tribunale di Roma ha giudicato infondata, nella sentenza del 19 aprile 2021, per plurime ragioni.

Anzitutto, perché la norma emergenziale stabilisce che il datore di lavoro, a prescindere dal numero dei dipendenti, non può licenziare per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’Art. 3 L. 604/1966, norma, quest’ultima, che non si applica ai dirigenti, sia per legge (si veda, l’Art. 10, L. 604/1966) sia per giurisprudenza costante.

In secondo luogo, per un motivo legato alla ratio del divieto, vale a dire quella di tutelare l’occupazione attraverso la possibilità per le aziende di avvalersi degli ammortizzatori sociali, consentendo alle stesse di contenere i costi del lavoro pur a fronte del c.d. blocco dei licenziamenti. In poche parole, ponendo i costi del lavoro a carico della collettività e non delle aziende. Nel caso dei dirigenti, il binomio divieto di licenziamento/costo a carico della collettività non è però sostenibile perché per i dirigenti il ricorso agli ammortizzatori sociali non è consentito in costanza di rapporto.

In terzo luogo, perché la diversità tra l’ipotesi del licenziamento individuale e quella del licenziamento collettivo giustifica una diversità di trattamento.

Questo contrasto giurisprudenziale sarà, allora, uno dei rischi che le aziende devono ponderare laddove, a fronte di una reale esigenza riorganizzativa, decidano di voler intimare il licenziamento ad un dirigente per motivo economico/organizzativo, non potendo escludere con certezza tali figure apicali dall’applicazione del c.d. blocco dei licenziamenti.

 DM-work 4.0 giugno 21

Avv.ti Andrea Savoia, Partner e Marilena Cartabia, Senior Associate – UNIOLEX Stucchi & Partners www.uniolex.com

 

Testata: DataManager-WORK 4.0

di Andrea Savoia e Marilena Cartabia

Il Protocollo Quadro Sperimentale firmato il 24 marzo 2021 per prevenire pratiche lavorative illegali potrebbe in futuro divenire un modello utile a tutelare i lavoratori autonomi della c.d. Gig Economy.

 Il 24 marzo 2021, è stato sottoscritto da Cgil, Cisl, Uil e Assodelivery, alla presenza del Ministero del Lavoro, il Protocollo Quadro Sperimentale per la legalità, contro il caporalato, l’intermediazione illecita e lo sfruttamento lavorativo nel settore del food delivery. Obiettivo del Protocollo è quello di prevenire pratiche lavorative illegali che intaccano i diritti fondamentali dei c.d. rider.

I punti chiave del Protocollo sono tre. Primo: l’impegno delle aziende aderenti ad Assodelivery ad adottare sia un modello organizzativo (ai sensi del D.lgs. n. 231/2001) idoneo a prevenire comportamenti scorretti all’interno dell’azienda con il correlato Codice Etico. Secondo: l’impegno delle piattaforme a non ricorrere ad aziende terze, almeno sino a quando non verrà creato un apposito albo delle piattaforme. Terzo: l’istituzione di un Organismo di Garanzia il cui compito sarà di vigilare, in posizione di terzietà, sulle dinamiche lavorative dei rider. Tale Organo, inoltre, lavorerà coordinandosi con il Tavolo di Governance e Monitoraggio, del quale faranno parte anche i rappresentanti dei lavoratori, oltre che le aziende.

Il Protocollo, ad oggi, interessa il settore del “food delivery”, tra i primi ad utilizzare in modo massivo forme di lavoro non standardizzate e flessibili tanto che, nel corso degli ultimi anni, si sono succeduti molteplici interventi, sia del legislatore che della giurisprudenza, con i quali si è cercato, da un lato, di qualificare il lavoro dei c.d. rider e, dall’altro, di introdurre delle tutele minime appropriate a prevenire abusi.

Ad oggi, le norme che interessano questi rapporti sono principalmente due: l’Art. 2, D.lgs. 81/2015, che estende la disciplina del rapporto di lavoro subordinato alle collaborazioni c.d. etero-organizzate anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali., e il Capo V-bis del medesimo D.lgs. 81/2015, ove sono assicurati livelli minimi di tutela per i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio di velocipedi o veicoli a motore.

A fronte dell’anzidetto quadro normativo, i profili di interesse del Protocollo del 24 marzo 2021, sono diversi. In primo luogo, la scelta di predisporre delle tutele che agiscano in prevenzione di possibili illeciti. In secondo luogo, la previsione che sia i modelli organizzativi sia il Codice etico debbano essere oggetto di informativa alle Parti sindacali firmatarie, in modo da poter favorire relazioni industriali finalizzate a promuovere lo sviluppo del settore nel rispetto dei diritti dei lavoratori. E, ancora, l’istituzione di un Organismo nazionale di garanzia al quale spetterà anche il compito di definire trimestralmente, in apposito documento tecnico, soglie di “allarme” oltre le quali attivare ogni utile approfondimento, inclusa la segnalazione alla competente Procura della Repubblica.

Il Protocollo, da ultimo, legittimando anche le forme di lavoro autonomo in uso per i rider, potrà costituire un modello anche per altri settori della Gig Economy, fornendo tanto gli strumenti (i modelli organizzativi, i codici etici etc.) quanto un esempio di relazioni sindacali specifico per settori altamente innovativi dove è maggiore l’esigenza di far convivere flessibilità, velocità e tecnologia con tutele effettive per i lavoratori, senza “costringerle” nell’alveo della subordinazione.

Av v.ti Andrea Savoia, Partner e Marilena Cartabia, Senior Associate – UNIOLEX Stucchi & Partners www.uniolex.com

DM APRILE 2021

 

 

di Olimpio Stucchi

Managing Partner Uniolex- Stucchi&Partners

 Di recente, due diversi studi hanno dimostrato che lo smart working è stato un vero strumento di business continuity durante l’emergenza pandemica, ma quello “praticato” non è stato lavoro agile, quanto un lavoro da remoto.

Secondo il primo studio del Politecnico di Milano, l’emergenza sanitaria ha imposto un esercizio collettivo di lavoro agile che, durante la prima fase della pandemia, ha portato i dipendenti privati in smart working ed essere quasi 6,58 milioni. Da settembre 2020, nelle grandi imprese private il numero è calato gradualmente fino ad assestarsi a circa 1,67 milioni di lavoratori.

I numeri dimostrerebbero, quindi, come il ricorso allo smart working abbia contribuito a limitare le conseguenze negative dello shock provocato dalla pandemia sulla domanda aggregata e sull’occupazione.

Tuttavia, dalla seconda indagine condotta dall’Istat e pubblicata il 14 dicembre 2020, è emerso come tra le imprese che sono ricorse allo smart working vi sia stato tanto un calo di produttività (del 20% nelle unità con 3-49 addetti, invariata in quelle con più di 50 addetti) quanto un calo dell’efficienza (39% nelle unità con 3-49 addetti e del 20% in quelle con più di 50 addetti) e, da ultimo, conseguenze negative si sono avute sulle relazioni interpersonali dei lavoratori.

Quest’ultimo risultato si può (forse) spiegare riconoscendo come quello praticato nei mesi della pandemia non sia stata un “vero” lavoro agile, declinato rispettandone le finalità previste dalla legge istitutiva (cfr. L. 81/2017), quanto piuttosto uno lavoro da remoto che si è imposto per non fermare tutte quelle attività che potevano essere svolte anche in un luogo differente dall’ufficio grazie agli strumenti informatici.

In poche parole, l’emergenza sanitaria ha costretto i datori a ricorrere, ove possibile, allo smart working, anche quando questa modalità lavorativa non era mai stata prima sperimentata o disciplinata con accordi e policy adeguate. Questo ha, però, comportato un uso delle “strumento” lavoro-agile senza possibilità di esercitare i presupposti di autonomia e flessibilità nella scelta del luogo di lavoro che dovrebbero contraddistinguerlo e senza aver prima avviato un percorso di trasformazione della cultura organizzativa aziendale, dei comportamenti e degli stili di leadership verso approcci più orientati alla responsabilizzazione sui risultati.

Se si rileggono le norme che disciplinano il lavoro agile in Italia, ci si “accorge” che gli scopi perseguiti dal legislatore erano tanto l’incremento della competitività aziendale quanto l’agevolazione della conciliazione dei tempi vita-lavoro (Art. 18, comma 1, L. 81/2017).

Il lavoro agile, inoltre, inteso come modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro e con prestazione eseguita in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, avrebbe avuto quale ordinario “fulcro” l’accordo scritto tra datore-lavoratore. E nell’accordo scritto avrebbero trovato spazio sia le regole per l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, sia la tipizzazione delle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro (Art. 19, comma 1, L. 81/2017).

Non meno rilevante, l’accordo delle parti è preposto a disciplinare l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione svolta dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali nel rispetto dell’Art. 4 dello Statuto dei lavoratori (Art. 21, L. 81/2017)

Dall’inizio della pandemia, però, il ricorso massivo allo smart working si è reso possibile grazie alla facoltà riconosciuta dai provvedimenti emergenziali di derogare ad alcune regole della L. 81/2017, prima tra tutte l’obbligo dell’accordo scritto, sostituibile con provvedimenti unilaterali del datore di lavoro. Possibilità da ultimo confermata anche nel c.d. Milleproroghe 2021 (D.L. n. 183/2020) fino alla fine dello stato di emergenza, ad oggi “databile” 30 aprile 2021 (cfr. Art. 1, D.L. 2/2021).

Ma lo smart working, così declinato, continua ad essere più uno strumento anti-contagio che di ausilio alla crescita della competitività aziendale: lo confermano gli ultimi provvedimenti emergenziali dove, tra le misure di prevenzione del contagio, si trova anche la raccomandazione ai datori di lavoro di utilizzare il lavoro agile (cfr. Art. 5 comma 6 DPCM 14 gennaio 2021).

Guardando ai prossimi mesi, le “regole della pandemia” non impediscono, però, alle aziende interessate ad accrescere efficienza e competitività di avviare un percorso più orientato al raggiungimento di obiettivi e ad una maggior responsabilizzazione dei dipendenti, coinvolgendo le diverse strutture aziendali (ad es. HR, IT, Legal) in progetti finalizzati ad un cambio della cultura organizzativa aziendale.

In una battuta, usare i mesi dell’emergenza per innovare le policy e i regolamenti aziendali, anche di compensation&benefit, rendendo, ad esempio, per gli smart-worker gli incrementi di efficienza e di produttività indicatori a cui legare l’erogazione del premio di risultato. Indicatori di efficienza e produttività che potrebbe rendere più probabile il raggiungimento dei risultati incrementali che la Legge di Stabilità 2016 (L. 208/2015) pone come condizione per l’applicabilità del regime fiscale agevolativo ai premi di risultato, nonché per la convertibilità in beni e servizi welfare degli stessi.

Laddove, invece, vi fosse una maggior esigenza di migliorare il coordinamento delle risorse e la verifica dei risultati, i prossimi mesi potrebbero essere usati per verificare la compatibilità delle strumentazioni informatiche  con i dettami dell’Art. 4 Statuto dei lavoratori e, nel caso, per modificare le policy sull’uso di tablet, pc, mail o cellulari, applicando i principi di liceità, necessità e proporzionalità del trattamento dei dati acquisiti, come raccomandato più volte dal Garante Privacy.

In una battuta: guardare all’esperienza del più recente passato per costruire il futuro. In fondo, solo chi sta seduto, non cade mai.

 

Leggi l’articolo: Smartworking: riflessioni aperte dopo un anno “da remoto”.

 

Testata: DataManager-WORK 4.0
Titolo: LICENZIAMENTO ECONOMICO ALTRO PUNTO DI ROTTURA.

WORK 4.0

di Andrea Savoia e Silvia Fumagalli

La Corte Costituzionale dichiara l’incostituzionalità dell’art. 18, comma 7, Statuto dei Lavoratori.  Facoltà – e non obbligo, per il Giudice di disporre la reintegrazione del lavoratore in caso di manifesta insussistenza del fatto.

Dal 2012, con la riforma dell’art. 18 dello Statuto Lavoratori, sono state introdotte tutele differenziate a seconda del vizio per il quale il licenziamento intimato al lavoratore viene dichiarato illegittimo dal Giudice. Ricordiamo le principali per dare evidenza dell’ultima novità apportata dall’ultima decisione della Consulta di cui (alla data del presente articolo) è stato pubblicato solo un comunicato stampa del 24 febbraio 2021.

La tutela “reale” (i.e. con reintegrazione nel posto di lavoro) “forte” (art. 18, comma 1), prevista in caso di nullità del licenziamento, perché ad esempio discriminatorio o intimato in forma orale, comporta per il datore l’obbligo di reintegrare il lavoratore, risarcire il danno per il periodo successivo al licenziamento fino alla reintegrazione e versare i contributi previdenziali.

La tutela reale “attenuata” (art. 18, comma 4), applicabile ad esempio in caso di licenziamento disciplinare per giusta causa o giustificato motivo soggettivo qualora venga accertata l’insussistenza del fatto contestato, obbliga, invece, alla reintegra del lavoratore e al pagamento di un risarcimento calcolato sulle mensilità perse dal licenziamento alla reintegra, sino ad un massimo di 12 mensilità e al versamento dei contributi previdenziali.

La tutela cosiddetta “obbligatoria” (ossia indennitaria) “piena” (art. 18, comma 4), applicabile nelle ipotesi, diverse dalle precedenti, in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa, prevede solo una tutela indennitaria, commisurata tra le 12 e 24 mensilità.

Inoltre, rispetto ai licenziamenti per motivo oggettivo (c.d. economico) la legge prevede(va), un’altra ipotesi di tutela “reale attenuata” (art. 18, comma 7), applicabile, tra le altre ipotesi previste, in caso di manifesta insussistenza del fatto posto a base della motivazione del licenziamento e che rimette(va) al Giudice il potere di disporre la reintegra del lavoratore, con condanna del datore al pagamento di una indennità risarcitoria, in misura non superiore a 12 mensilità e detratto quanto percepito dal lavoratore per lo svolgimento di altre attività lavorative nel periodo di estromissione e al versamento dei contributi previdenziali.

In poche parole, in caso di licenziamento per motivo c.d. economico, la reintegra del lavoratore era una facoltà concessa al Giudice il quale avrebbe anche potuto dichiarare risolto il rapporto di lavoro con condanna del datore al pagamento della sola indennità risarcitoria onnicomprensiva tra un minimo di 12 e una massimo di 24 mensilità.

Dal comunicato stampa pubblicato risulta che la Corte Costituzionale abbia ora dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 18, 7 comma seconda parte, dove prevede per il Giudice la facoltà, e non l’obbligo, di reintegrare il lavoratore nel luogo di lavoro, in caso di insussistenza del fatto, in quanto vi sarebbe una disparità di trattamento, in violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione, rispetto a quello previsto per il lavoratore licenziato per giusta causa rispetto a cui sia stata accertata l’insussistenza del fatto contestato. In quest’ultima ipotesi, infatti, al Giudice non è lasciata alcuna facoltà di scelta, ma deve disporre la reintegra del lavoratore.

Per quanto il comunicato stampa citi solo il licenziamento per “giusta causa”, in attesa delle motivazioni della sentenza parrebbe scontato ritenere che la Consulta abbia inteso riferirsi anche alle ipotesi di reintegra prevista per il licenziamento per giustificato motivo soggettivo qualora venga accertata l’insussistenza del fatto contestato.

La decisione della Consulta porta, in ogni caso, nuovamente alla ribalta la reintegra del dipendente in caso di licenziamento illegittimo.

DM Aprile 2021

Avv.ti Andrea Savoia, Partner e Silvia Fumagalli, Senior Associate – UNIOLEX Stucchi & Partners www.uniolex.com

 

Testata: DataManager-WORK 4.0
Titolo: SMART-WORKING:  ASPETTANDO LA DIRETTIVA EUROPEA.

di Andrea Savoia e Marilena Cartabia

Nell’attesa che sia emanata una Direttiva europea per uniformare le regole dello smart-working, le imprese possono usare i mesi dell’emergenza per innovare o implementare le loro policy o best practices guardando alla recente esperienza del c.d. lavoro agile “forzato”

 Due recenti studi hanno dimostrato che durante l’emergenza pandemica lo smart-working è stato un vero strumento di business continuity, ma quello “praticato” non è stato lavoro agile, quanto un lavoro da remoto.

Secondo il primo studio del Politecnico di Milano, l’emergenza sanitaria ha imposto un esercizio collettivo di lavoro agile i cui numeri dimostrerebbero come lo smart-working abbia contribuito a limitare le conseguenze negative dello shock provocato dalla pandemia sull’occupazione.

La seconda indagine condotta dall’Istat mostra, però, come nelle imprese che sono ricorse allo smart-working vi sia stato un calo di produttività, un calo dell’efficienza e, da ultimo, conseguenze negative sulle relazioni interpersonali dei lavoratori.

Quest’ultimo risultato si può (forse) spiegare ammettendo che quello praticato nei mesi della pandemia non è stato un “vero” lavoro agile, quanto piuttosto uno lavoro “da remoto” imposto per non fermare tutte quelle attività che potevano essere svolte anche in un luogo differente dall’ufficio grazie agli strumenti informatici.

Lavoro da remoto poco allineato alle finalità perseguite dal nostro legislatore all’indomani della regolamentazione dello smart-working, vale a dire l’incremento della competitività aziendale e l’agevolazione della conciliazione dei tempi vita-lavoro (Art. 18, co. 1, L. 81/2017).  Inoltre, il lavoro agile, inteso come modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro e con prestazione eseguita in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, ha quale “centro focale”” l’accordo scritto tra datore-lavoratore, ove devono essere previste, ad esempio, sia le regole della prestazione lavorativa svolta all’esterno dell’azienda, sia la tipizzazione delle forme di esercizio del potere direttivo (Art. 19, co. 1, L. 81/2017).

Dall’inizio della pandemia, però, il ricorso massivo allo smart-working è stato possibile grazie alla facoltà riconosciuta dai provvedimenti emergenziali di derogare ad alcune regole della L. 81/2017, prima tra tutte l’obbligo dell’accordo scritto, sostituibile con provvedimenti unilaterali del datore di lavoro. Possibilità da ultimo confermata anche nel c.d. Milleproroghe 2021 (D.L. n. 183/2020) fino alla fine dello stato di emergenza, ad oggi “databile” 30 aprile 2021 (cfr. Art. 1, D.L. 2/2021).

Ma lo smart working, così declinato, continua ad essere più uno strumento anti-contagio che di ausilio alla crescita della competitività aziendale.

Nei prossimi mesi, però, le aziende interessate ad accrescere efficienza e competitività potranno comunque avviare un percorso più orientato al raggiungimento di obiettivi e ad una maggior responsabilizzazione dei dipendenti. In una battuta, usare i mesi dell’emergenza, ad esempio, per innovare le policy e i regolamenti aziendali, anche di compensation & benefit. Oppure, per verificare la compatibilità delle strumentazioni informatiche con i dettami dell’Art. 4 Statuto dei lavoratori e, nel caso, per modificare le policy sull’uso di tablet, pc, mail o cellulari, applicando i principi di liceità, necessità e proporzionalità del trattamento dei dati acquisiti, come raccomandato più volte dal Garante Privacy.

Accorgimenti che potranno anticipare le norme europee, visto che lo scorso 21 gennaio 2021 il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione con cui si esorta l’adozione di una Direttiva nel quale sarà posta attenzione non solo alla flessibilità lavorativa, ma anche al diritto alla disconnessione.

L’esperienza del più recente passato potrà, allora, essere una valida lezione da cui partire per costruire le policy del futuro.

 

Avv.ti Andrea Savoia, Partner e Marilena Cartabia, Senior Associate – UNIOLEX Stucchi & Partners www.uniolex.com

 

 

DM Marzo 2021

Testata: DataManager-WORK 4.0
Titolo: BLOCCO DEI LICENZIAMENTI: DALLE NORME ALLE DECISIONI.

WORK 4.0

di Andrea Savoia e Marilena Cartabia

[Il Tribunale di Mantova si è per la prima volta pronunciato sul c.d. blocco dei licenziamenti riconoscendo la nullità del licenziamento intimato per motivo economico nonostante la vigenza del divieto. Violate norme di natura imperativa]

 L’anno appena finito sarà per tutti indimenticabile, nel bene e nel male. La pandemia provocata dalla diffusione del virus Covid-19 ha cambiato molte abitudini, ma soprattutto ha imposto alle istituzioni di individuare quante più soluzioni possibili per limitare le conseguenze, anche economiche, legate alle chiusure imposte a molte attività produttive.

Tra le misure eccezionali adottate dal legislatore italiano quella che ha da subito destato un certo “scalpore” è stata l’introduzione del c.d. blocco dei licenziamenti: con l’Art. 46 del Decreto Cura Italia, da marzo 2020, si è imposto a tutte le aziende di non avviare procedure di licenziamento collettivo (quelle pendenti al 23 febbraio 2020 sono state sospese) e di non intimare licenziamenti per motivi economici. Questo divieto, che inizialmente doveva operare solo per sessanta giorni, è stato via via prorogato e, da ultimo, con l’approvazione della Legge di Bilancio per il 2021 (Legge n. 178 del 30.12.2020), ne è stata confermata la vigenza sino al prossimo 31 marzo 2021.

Dal momento che l’unico precedente storico della norma risaliva al Dopoguerra, quando un Decreto luogotenenziale del 21 agosto 1945 aveva imposto ai soli datori di lavoro identificati per settore produttivo (industriale) e sede (39 provincie della c.d. “Alta Italia”) di non licenziare i lavoratori identificati per la categoria di appartenenza (impiegati, operai), fin dalle settimane successive l’entrata in vigore del c.d. blocco si è aperto un vivace dibattito su due temi principali. Primo: l’individuazione delle ipotesi escluse dal novero dei casi “bloccati”. Secondo: nel silenzio di legge, l’individuazione del regime sanzionatorio applicabile all’azienda che avesse comunque deciso di licenziare per ragioni economiche.

Proprio alla seconda domanda ha dato risposta il Tribunale di Mantova con la sentenza dello scorso 11 novembre 2020, ad oggi, la prima pronunzia nota sul c.d. blocco dei licenziamenti.

Il caso concreto ha interessato una dipendente assunta a maggio 2018, collocata in CIG-Covid a marzo 2020 e licenziata il 9 giugno 2020 per “chiusura della sede operativa e la cessazione dell’attività”. Impugnato il licenziamento, la lavoratrice dimostrava che l’attività del suo datore non era affatto cessata perché altri punti vendita erano rimasti aperti e vi continuavano a lavorare altre colleghe, per cui chiedeva al Giudice di essere reintegrata.

Secondo il Tribunale di Mantova, il c.d. blocco dei licenziamenti costituisce una tutela temporanea della stabilità dei rapporti di lavoro, finalizzata a salvaguardare la stabilità del mercato e del sistema economico, per cui la sua adozione si collega ad esigenze di ordine pubblico: per questi motivi, il divieto assume natura imperativa e la sua violazione comporta la nullità del licenziamento sia ai sensi dell’Art. 18, comma 1 St. lav. (che si applica a chi è stato assunto prima del 7 marzo 2015), sia ai sensi dell’Art. 2 del D.lgs. 23/2015 (che si applica a chi è stato assunto in regime di c.d. tutele crescenti).

Rimane tuttavia una questione che potrebbe essere sollevata nelle prossime settimane: la legittimità costituzionale della norma. In tal caso, la Corte Costituzionale potrebbe essere chiamata a pronunciarsi sul bilanciamento dei due diritti coinvolti dal divieto: da un lato, la libertà di iniziativa economica privata riconosciuta dall’Art. 41 della Costituzione e dall’Art. 16 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; dall’altro il diritto al lavoro, riconosciuto dall’Art. 4 della Costituzione.

work 4.0 gf

Avv.ti Andrea Savoia, Partner e Marilena Cartabia, Senior Associate – UNIOLEX Stucchi & Partners www.uniolex.com

 

 

DM gennaio/febbraio 2021