_Con le tutele crescenti resta il rischio reintegra

Chi aveva immaginato che con le nuove regole sui licenziamenti individuali introdotte dal dlgs 23/15 la reintegra sarebbe progressivamente scomparsa dalle aule dei Tribunali, dovrà adesso ricredersi.

Recentissime pronunzie dei Tribunali di Milano e di Torino (rispettivamente, del 16 settembre 2016, 5 ottobre 2016 e 3 novembre 2016), hanno infatti condannato le aziende a reintegrare i dipendenti licenziati, anche se assunti in regime di tutele crescenti.

In tutti i casi decisi, la reintegra è stata disposta applicando la regola dell’articolo 3, comma 2, del nuovo testo legislativo, che stabilisce tale sanzione per il caso di «insussistenza del fatto materiale contestato».

In due casi, sia il Tribunale di Torino, a settembre, sia il Tribunale di Milano, a novembre, hanno deciso il caso di lavoratori assunti in regime di tutele crescenti e licenziati per mancato superamento del periodo di prova, vale a dire in ipotesi in cui è ammesso il recesso del datore di lavoro senza alcuna giustificazione (“ad nutum” ex articolo 2096 del codice civile).

Secondo entrambi i Tribunali, i patti di prova considerati erano nulli per difetto di forma scritta antecedente o contestuale la sottoscrizione del contratto di lavoro. Per questo motivo i recessi datoriali sono stati ricondotti non a un’ipotesi di licenziamento ad nutum, ma ad un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale sulla sussistenza o meno di giusta causa o giustificato motivo (in senso analogo si veda anche: Cassazione, Sezione Lavoro, 12 settembre 2016, n. 17921).

Senonché, proprio perché intimati per mancato superamento della prova, i licenziamenti erano stati formulati senza l’indicazione di una motivazione espressa e, quindi, i Tribunali non hanno potuto procedere ad alcuna verifica effettiva delle ragioni sottostanti i recessi.

Con tali argomentazioni, i Giudici hanno ritenuto i licenziamenti impugnati privi di giustificazione, applicando di conseguenza non la sanzione indennitaria prevista dall’articolo 3, comma 1, del Dlgs 23/15, ma la reintegra nel posto di lavoro con condanna al risarcimento economico del danno, sanzione stabilita dall’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/15 per l’ipotesi di «diretta dimostrazione in giudizio» dell’insussistenza del fatto materiale contestato.

La vicenda decisa, dalla Sezione Lavoro del Tribunale di Milano il 5 ottobre 2016, interessava invece un lavoratore assunto nel settembre 2015, licenziato per asserita giusta causa.

Impugnato il licenziamento, l’ex dipendente chiedeva di essere reintegrato, invocando la nullità del recesso datoriale. La Società, invece, decideva di non costituirsi in giudizio.

Per il Tribunale di Milano, il datore di lavoro restato contumace aveva omesso di dimostrare la sussistenza della giusta causa posta a fondamento del licenziamento, così concretizzandosi un caso di «manifesta insussistenza del fatto materiale» da cui si è fatto discendere, ai sensi dell’articolo 3, comma 2, del Dlgs 23/2015, la reintegra del lavoratore.

In poche parole, il Tribunale di Milano, per il solo fatto della contumacia del datore, ha equiparato la mancata dimostrazione in giudizio della causale di licenziamento alla “prova diretta” dell’insussistenza del fatto materiale, richiesta dall’articolo 3, comma 2, ai fini della reintegra.

di Olimpio Stucchi

22-11-2016
Quotidiano del Lavoro