_Appaltatori tremate, la decadenza non si applica agli Enti!

Di Olimpio Stucchi e Marilena Cartabia

Uno degli interrogativi che, da tempo, forse, “assillava” i committenti era capire dopo quanti anni gli Enti previdenziali (INPS per primo) potessero chieder loro, quali responsabili in solido, i contributi non versati dall’appaltatore e correlati alle retribuzioni dei lavoratori adibiti all’esecuzione della commessa.

La Cassazione, con la sentenza del 4 luglio 2019 (è la n. 18004), ha dato la sua risposta alla domanda: gli Enti hanno a disposizione l’ordinario termine di prescrizione e non sono soggetti al termine di decadenza di due anni.

Per capire la portata della decisione, occorre ricordare che l’Art. 29, comma 2, D.lgs. 276/2003 prevede una responsabilità solidale tra committente e appaltatore (o sub-appaltatore) per cui anche l’appaltante può essere chiamato a corrispondere ai lavoratori dell’appaltatore i trattamenti retributivi (incluse le quote di TFR), nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto.

La norma prevede, poi, che tale responsabilità solidale operi “entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto” senza tuttavia stabilire se questo termine di decadenza biennale si riferisca tanto all’azione promossa dai lavoratori (dell’appaltatore), “rimasti” senza retribuzione, che agli Enti previdenziali, unici soggetti legittimati a chiedere il versamento di contributi omessi.

Nel silenzio di legge, i Tribunali di merito avevano sostenuto due diverse soluzioni.

La prima, secondo la quale anche l’azione degli Enti, seppur relativa ad un’obbligazione contributiva, poteva ritenersi soggetta al termine di decadenza di due anni perché “modellata” sulla speciale azione riconosciuta al lavoratore.

La seconda, invece, per cui l’azione dell’Ente restava “ancorata” alla disciplina generale in materia di obbligazioni contributive, per cui non poteva ritenersi soggetta ad alcuna decadenza, ma solo al termine di prescrizione.

La Cassazione, con la sentenza del 4 luglio 2019, ha ritenuto di poter condividere la seconda soluzione anzitutto perché l’obbligazione contributiva, derivante dalla legge e facente capo all’Ente, è distinta e autonoma da quella retributiva. In secondo luogo, perché la diversa soluzione porterebbe ad un “risultato pratico” contrario alla protezione contributiva del lavoratore che il legislatore dell’Art. 29 ha voluto rafforzare. Infatti, al pagamento della retribuzione, ottenuta grazie all’azione del lavoratore esercitata entro i due anni dalla cessazione dell’appalto, non seguirebbe il versamento di alcun contributo se anche l’Ente non azionasse la propria azione entro il medesimo termine biennale.

Per la Cassazione, dunque, il termine di decadenza di due anni non è applicabile all’azione promossa dagli Enti previdenziali perché soggetta alla sola prescrizione.

Per le società committenti gli effetti pratici della decisione si possono già leggere “tra le righe” della pronunzia: raccomandato l’utilizzo virtuoso del contratto d’appalto e la selezione di imprese-appaltatrici virtuose per evitare che, dopo due anni dalla cessazione dell’appalto, i lavoratori chiedano le retribuzioni non pagate e, fino a cinque anni dopo la cessazione dell’appalto (che potrebbero diventare dieci ove il lavoratore abbia tempestivamente interrotto la prescrizione), gli Enti previdenziali “reclamino” i contributi omessi dall’appaltatore.

Sino al prossimo eventuale “ripensamento” della Cassazione, allora, prudenza e controllo sulla filiera degli appalti diventano i migliori alleati delle imprese che decidono di esternalizzare parte della propria attività produttiva.