_Repêchage: l’evoluzione di un obbligo

Spunti di riflessione partendo da una recente decisione del Tribunale di Milano, in attesa della decisione della Corte Costituzionale.

di Marilena Cartabia

 

In caso di licenziamento per motivo economico di un lavoratore assunto con il nuovo regime delle c.d. tutele crescenti, spetta solo un’indennità economica e non la reintegra, anche quando il datore non dimostra di aver offerto o ricercato una diversa occupazione per il dipendente licenziato.

E’ questo il principio affermato solo poche settimane fa dalla dal Tribunale di Milano (sentenza 8 agosto 2017, n. 1755), la quale offre alcuni interessati spunti di riflessione sul c.d. obbligo di repêchage.

 

Il caso.

La vicenda posta all’attenzione del Tribunale di Milano ha interessato un lavoratore che, assunto nel giugno 2015, aveva impugnato il licenziamento intimatogli per motivo oggettivo chiedendo al Giudice di accertare, in via principale, la natura discriminatoria dell’atto datoriale o, in via subordinata, l’insussistenza del motivo economico. In entrambi i casi il lavoratore chiedeva la sua reintegra.  Nessuno si costituiva per la Società che restava contumace.

Conclusa l’istruttoria orale, il Tribunale di Milano accoglieva solo in parte il ricorso del lavoratore, escludendo la natura discriminatoria del licenziamento, per non aver il dipendente dimostrato che l’intento discriminatorio avesse avuto efficacia determinante esclusiva. Quanto, invece, alla soppressione del posto di lavoro, se da un lato il lavoratore non aveva contestato in modo specifico tale circostanza, dall’altro, il datore di lavoro rimasto contumace non aveva assolto l’onere di dimostrare l’impossibilità di un utile reimpiego del dipendente. Ciò nonostante, applicando il nuovo regime introdotto dal D.lgs. 23/2015, il Giudice condannava la Società al solo pagamento di un’indennità economica, dichiarando estinto il rapporto di lavoro.

 

L’obbligo di repêchage: lo stato dell’arte.

Come noto, il licenziamento per motivo economico è stato per lungo tempo considerato legittimo non solo quando sussistevano le ragioni economiche, organizzative e produttive ad esso sottostanti, ma anche quando il datore di lavoro verificava che non esistevano, al momento del licenziamento e con riguardo all’organizzazione aziendale complessiva, altre mansioni utili e attribuibili al lavoratore ritenuto in esubero. Entrambe le circostanze, poi, dovevano essere dimostrate in giudizio dal datore, ai sensi dell’Art. 5, L. 604/1966, con l’obbligo propedeutico a carico del lavoratore di dedurre, in sede di impugnazione, l’esistenza di posti di lavoro alternativi (Cass. 22 marzo 2016, n. 5592).

L’obbligo di repêchage è, quindi, una “creatura” della giurisprudenza italiana che trovava origine nella previgente formulazione dell’Art. 18 St. lav. Nessun dubbio, peraltro, almeno sino all’estate del 2012, che in caso di mancato adempimento dell’obbligo di ricercare una possibile e utile ricollocazione il lavoratore potesse chiedere la reintegra.

Il regime sanzionatorio correlato al mancato adempimento dell’obbligo di repêchage ha, però, iniziato a sgretolarsi all’indomani dell’entrata in vigore della c.d. Riforma Fornero (L. 92/2012), quando l’Art. 18 St. lav. è stato modificato con l’introduzione di due diversi regimi di tutela applicabili: la tutela reintegratoria c.d. attenuta (ex Art. 18, comma 4 St. lav.), applicabile solo in caso di “manifesta insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” e la tutela esclusivamente indennitaria, da 12 a 24 mensilità, per “le altre ipotesi in cui il Giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo” (Art. 18, comma 5, St. lav.).

Poco dopo la modifica dell’Art. 18 St. lav., la giurisprudenza, chiamata ad applicare le nuove disposizioni, aveva inizialmente ritenuto che, in caso di mancato adempimento del c.d. obbligo di repêchage, il lavoratore licenziato potesse essere reintegrato, sussistendo un’ipotesi di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento”. Da ultimo, però, la giurisprudenza di merito si era allineata nel ritenere che l’impossibilità di reimpiegare il lavoratore esulasse dal “fatto”, rientrando nelle “altre ipotesi”, così escludendo la reintegra del lavatore, a cui veniva applicata la sola tutela indennitaria (cfr. da ultimo, Tribunale di Torino, 5 aprile 2016).

Ancor più di recente, il legislatore è di nuovo intervenuto modificando il regime sanzionatorio applicabile ai licenziamenti intimati ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, prevedendo l’applicazione della sola tutela indennitaria in caso di illegittimo licenziamento per motivo economico (cfr. Art. 3 e 9, D.lgs. 23/2015).

Tuttavia, all’attenuazione del regime sanzionatorio applicabile, si è contrapposto un “aggravamento” del contenuto dell’obbligo di repêchage: la giurisprudenza, infatti, non ha tardato a rilevare come l’onere di dimostrare l’impossibilità di una utile ricollocazione sia divenuto oggi più stringente dopo la modifica dell’Art. 2103 c.c., introdotta D.lgs. 81/2015.

E così, proprio il Tribunale di Milano, con sentenza del 16 dicembre 2016, ha osservato come, dal 23 giugno 2015, la nozione di equivalenza delle mansioni è stata sostituita dal concetto di mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento. Pertanto, l’ambito di indagine in merito all’esistenza di posizioni alternative ove poter ricollocare il dipendente si estende ora a tutte le attività disponibili nel complesso aziendale che appartengono al livello di inquadramento del lavoratore ritenuto in esubero, senza che il lavoratore possa lamentare che le nuove attività abbiano contenuto peggiorativo o non rientrino nel suo bagaglio di competenze professionali.

Non solo: la ricerca di posizioni lavorative attribuibili al lavoratore ritenuto in esubero dovrà oggi considerare anche quelle del livello immediatamente inferiore (a parità di categoria legale), dal momento che il licenziamento per ragioni economiche può essere ricondotto ad un ipotesi di “modifica degli assetti organizzativi aziendali direttamente incidente sul posto di lavoro” (cfr. Art. 2103 c.c., comma 2).

Onere probatorio del datore di lavoro, infine, ulteriormente “appesantito” dalle più recenti decisioni della Cassazione che hanno affermato spetti in via esclusiva al datore di lavoro allegare e dimostrare l’impossibilità di repêchage del lavoratore licenziato, in quanto requisito del licenziamento per motivo oggettivo, con esclusione di oneri di allegazione di alcun tipo in capo al lavoratore (Cass. 19 aprile 2017, n. 9869).

 

Conclusioni.

Se, da un lato, pare oggi difficile ipotizzare che, con il nuovo regime delle c.d. tutele crescenti, le conseguenze discendenti dalla violazione dell’obbligo di repêchage si possano spingere oltre una tutela di carattere puramente economico (per di più limitata, per le imprese di maggiori dimensioni, a due mensilità per ogni anno di anzianità di servizio), come dimostra anche la sentenza del Tribunale di Milano appena commentata, è però altresì vero che – per i dipendenti assunti prima del 7 marzo 2015- il mancato adempimento dell’onere di repêchage potrebbe ancora avere delle conseguenze rilevanti per i datori di lavoro. In queste ultime ipotesi, infatti, i Giudici potranno ancora applicare la tutela risarcitoria “pesante” prevista dall’Art. 18, comma 5, St. lav., sanzione che, qualora si confermasse l’orientamento della Cassazione sopra ricordato, sarebbero “il portato” della modifica al contenuto dell’obbligo di repêchage a carico del datore di lavoro.

Pertanto, ancora adesso, prima di procedere ad intimare un licenziamento per motivi economici, i datori di lavoro dovranno prestare particolare attenzione tanto nell’individuazione di lavoratori ritenuti in esubero che nella scelta delle possibili mansioni alternative da offrire.

Il tutto aspettando il prossimo capitolo della saga, visto la remissione alla Corte Costituzionale del D.lgs. 23/2015 e la presentazione, in data 3 ottobre 2017, di un DDL di riforma della disciplina di licenziamenti illegittimi