_I terribili effetti dell’intemperanza

I terribili effetti dell’intemperanza: una lettura moderna.

di Paola Gobbi e Marilena Cartabia

 

E’ legittimo licenziare per giusta causa il dipendente che, in presenza di altri colleghi, minacci il superiore gerarchico, così generando con le sue intemperanze tensioni nell’ambiente di lavoro: lo ha deciso la Cassazione pochissimi giorni fa, con sentenza del 6 novembre 2017 n. 26273.

 

La vicenda.

Nel caso posto all’attenzione dei giudici della Cassazione, il lavoratore, dipendente di un’Università con mansioni impiegatizie e già sanzionato con sospensione di dieci giorni per aver avuto nei riguardi dei colleghi condotte lesive la dignità personale, era stato licenziato a seguito della minaccia rivolta alla propria responsabile di “dare un’accettata in testa a qualcuno perché gli avevano rotto tutti” proferita in ufficio alla presenza di altri lavoratori.

Contro la decisione della Corte d’Appello di Roma che, confermando quanto deciso in primo grado, aveva ritenuto legittimo il licenziamento, ha fatto ricorso il lavoratore per plurimi motivi, tutti rigettati dalla Cassazione.

 

Minaccia al superiore gerarchico: rischio violazione dei doveri ex Art. 2087 c.c. e obbligo di affissione del codice disciplinare.

Nel corpo delle motivazioni, affrontando le molteplici censure sollevate dal lavoratore, la Corte Suprema ha avuto occasione di ribadire alcuni importanti principi.

In merito alla doglianza sull’errata valutazione della recidiva, la Corte afferma che la gravità dell’episodio da ultimo contestato era, in sé, idoneo a costituire giusta causa di recesso.

Infatti, rispetto alla valutazione della gravità dei fatti commessi dal lavoratore, la Cassazione osserva che l’elencazione prevista dai contratti collettivi delle condotte punibili con il licenziamento senza preavviso è solo esemplificativa e non esaustiva, per cui al Giudice è sempre consentito di valutare se il fatto contestato impedisca la prosecuzione, anche solo provvisoria, del rapporto di lavoro, e quindi costituisca giusta causa di licenziamento ex Art. 2119 c.c.

Nel caso concreto deciso dalla sentenza in commento, ai fini della valutazione della gravità dei fatti contestati, aveva pesato non solo il tenore delle minacce proferite dall’ex dipendente, ma altresì la circostanza che l’intemperanza del lavoratore aveva generato un clima di tensione tra i colleghi che esponeva il datore alla violazione degli obblighi previsti a suo carico dall’Art. 2087 c.c.. Tale norma, infatti, secondo l’interpretazione oggi prevalente e ritenuta conforme anche alla previsione dell’Art. 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (“Ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose”) impone al datore l’obbligo di preservare l’integrità fisica e morale dei dipendenti, nonché di assicurare la serenità dell’ambiente di lavoro e la credibilità e l’autorevolezza di chi ha compiti di direzione e controllo del personale (Cass. 14002/2013).

Quanto, poi, all’ulteriore doglianza del lavoratore circa l’omessa pubblicazione del codice disciplinare nei locali aziendali, la Corte riconosce che la stessa non era necessaria dato che il comportamento sanzionato era immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale. In queste ipotesi, infatti, la violazione dei doveri fondamentali a carico del lavoratore è talmente grave che il dipendente, a prescindere dall’elencazione prevista dal codice disciplinare, può rendersi conto (da solo) dell’illiceità della sua condotta (Cass. 54/2017).

Sulla medesima tematica, è importante rilevare come, a fronte della doglianza del lavoratore sull’omessa affissione del codice nei locali ove il medesimo prestava la propria attività lavorativa, il datore si era difeso sostenendo che, oltre ad essere affisso in bacheca presso i locali della “Divisione Personale”, il documento era stato anche pubblicato su sito Web dell’Ateneo. Tuttavia, il lavoratore contestava la correttezza di tale ultima forma di pubblicità del codice perché il CCNL applicato all’epoca dei fatti imponeva la sola affissione in bacheca, modalità indicata come “tassativa e non sostituibile”.

Al riguardo, la Cassazione, pur concordando con il lavoratore sulla non equipollenza della pubblicazione on-line del codice con la sua affissione (fisica), ha comunque ritenuto valido ed efficace il licenziamento data l’estrema gravità dei fatti contestati e la conseguente non necessità della garanzia di pubblicità del codice.

Infine, rispetto alla doglianza di omessa audizione del dipendente e conseguente lesione del suo diritto di difesa sancito dall’Art. 7 St. lav., la Corte rileva che, al contrario di quanto denunziato dal lavoratore, il datore aveva concesso plurimi differimenti della data prevista per l’audizione orale del dipendente, ascoltato al termine della malattia.

 

Riflessioni conclusive.

La sentenza appena commentata è di particolare rilievo, anzitutto, per aver confermato la natura solo esemplificativa delle casuali di licenziamento senza preavviso previste dai CCNL, ma anche per aver circoscritto la regola della necessaria pubblicazione del codice disciplinare alle condotte che non costituiscono violazione di doveri fondamentali dal lavoratore.

Inoltre, prendendo spunto dalla decisione in esame che esclude forme di pubblicità del codice disciplinare alternative alla tradizionale affissione poiché tale modalità era tassativamente prevista dal CCNL applicato dal datore di lavoro, si potrebbe ipotizzare una modernizzazione dell’orientamento giurisprudenziale al passo con le nuove tecnologie. Così facendo, la sentenza dovrebbe anche porre al riparo dal rischio di allarmanti “fake news” di generale e indifferenziato divieto di forme di pubblicità del codice disciplinare alternative l’affissione su (obsolete) bacheche.