_Irrilevanza dell’entità del danno e legittimità del licenziamento

Irrilevanza dell’entità del danno e legittimità del licenziamento

di Marco Tesoro

 

Con la sentenza n. 24014 del 12.10.2017, la Corte di Cassazione si pronuncia sul concetto di giusta causa di licenziamento e proporzionalità del provvedimento rispetto ai fatti contestati, nell’ambito di un procedimento disciplinare avente ad oggetto una condotta furtiva.

 

Il caso

La fattispecie sottoposta al vaglio della Cassazione attiene al licenziamento per giusta causa irrogato all’addetto al rifornimento degli scaffali di un supermercato che veniva sorpreso, grazie all’allarme antitaccheggio, in possesso di gomme e caramelle di valore complessivo pari a € 9,80.

Il Tribunale di Napoli respingeva il ricorso del lavoratore volto all’accertamento dell’illegittimità del provvedimento espulsivo, e la sentenza veniva confermata in Appello.

Il lavoratore ricorreva in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello che, a suo dire, nel valutare la gravità dei fatti contestati, non avrebbe tenuto conto del modico valore dei beni asseritamene sottratti, né che si trattasse della sua prima sanzione disciplinare, né del mancato accertamento incontrovertibile dei fatti contestati.

 

Gravità della condotta e proporzionalità della sanzione

Ignorando l’ultima doglianza ritenuta inammissibile dalla Corte, appare utile soffermarci sul ragionamento compiuto dai Giudici della Suprema Corte nella pronuncia in commento, volto ad accertare la sussistenza della giusta causa di licenziamento e la proporzionalità della sanzione.

In via preliminare, secondo la Corte il giudizio va operato tenendo conto degli aspetti concreti riguardanti i) natura e utilità del singolo rapporto, ii) posizione delle parti, iii) grado di affidamento richiesto dalle mansioni del dipendente, iv) nocumento eventualmente arrecato e v) portata soggettiva dei fatti intesa come circostanze del loro verificarsi, motivi e intensità dell’elemento intenzionale (Cass. n. 1977/2016, Cass. n. 1351/2016, Cass. n. 12059/2016).

In merito a quest’ultimo, nella pronuncia in commento la Corte ricorda come non rilevi la distinzione tra dolo e colpa, perché anche una condotta colposa, a seconda delle caratteristiche proprie e nell’ambito di una valutazione complessiva che tenga conto di tutte le altre caratteristiche della fattispecie, può risultare idonea a determinare una irrimediabile lesione del vincolo fiduciario che non consenta la prosecuzione del rapporto (Cass. n. 13512/2016, Cass. n. 5548/2010).

Facendo poi specifico riferimento alle contestazioni disciplinari aventi ad oggetto condotte furtive, la Corte evidenzia come il giudizio sulla gravità o meno degli addebiti non dipenda dal valore del danno patrimoniale eventualmente arrecato al datore di lavoro.

Al contrario, ciò che rileva è l’accertamento della gravità del fatto oggettivo contestato, da valutarsi in relazione al valore sintomatico che lo stesso possa assumere rispetto a futuri comportamenti del lavoratore, e quindi sulla fiducia che l’azienda potrà nutrire nei suoi confronti.

Secondo i Giudici, è necessario che i fatti addebitati rappresentino una grave violazione degli elementi del rapporto di lavoro – in particolare della fiducia – al punto da porre in dubbio il futuro corretto adempimento della prestazione lavorativa.

In applicazione dei principi di cui sopra, nel caso che ci occupa la Suprema Corte ha condiviso il giudizio della Corte d’Appello di gravità della condotta contestata e di proporzionalità della sanzione espulsiva, alla luce i) della peculiarità dell’organizzazione aziendale, caratterizzata dall’esposizione della merce nei banchi di vendita, ii) delle mansioni affidate al lavoratore, che comportavano diretto contatto con la merce, iii) del carattere fraudolento della condotta, desunto dalla convinzione che la sottrazione non sarebbe stata scoperta perché la merce era priva dei tradizionali e visibili dispositivi antitaccheggio, motivo per cui era stata riposta semplicemente in tasca.

Quest’ultimo aspetto, che evidenzia una condotta dolosa e premeditata, è stato ritenuto come sintomatico dell’inaffidabilità del dipendente, anche in prospettiva futura, che ne giustifica il licenziamento, a nulla rilevando, dunque, che il bottino dell’improvvido dipendente valesse meno di 10 euro.

 

Conclusioni

Alla luce del ragionamento della Corte, dunque, il modico valore della refurtiva in sé non è sufficiente ad escludere la gravità della condotta del lavoratore in relazione all’art. 2119 cod. civ., a conferma dell’orientamento giurisprudenziale ormai maggioritario (si veda, da ultimo, Cass. Civ. Sez. Lav. n. 18184 del 24 luglio 2017 che ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato alla cassiera di un supermercato che accreditava sulla propria carta punti l’importo della spesa fatta dai clienti, affermando che “il giudice del merito ha correttamente fondato il suo giudizio di proporzionalità della sanzione sulla intensità del vincolo fiduciario sotteso alle mansioni di cassiera e sulla gravità, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, di una condotta reiterata, consapevole e volontaria di trasgressione del regolamento aziendale benché esso prevedesse la punibilità della infrazione commessa con il licenziamento. Tale giudizio è esente dalle critiche mosse giacché la tenuità del danno e la mancanza di precedenti disciplinari non sono circostanze in sé decisive, dovendo piuttosto verificarsi se l’inadempimento, complessivamente valutato, sia idoneo ad incidere sulla prognosi di futura correttezza dell’adempimento dell’obbligazione lavorativa”).