_Novità in punto di repêchage: limiti e sanzioni

Novità in punto di repêchage: limiti e sanzioni
di Paola Gobbi e Marco Tesoro

 

Con due importanti sentenze, la Corte di Cassazione ha di recente ridefinito i limiti dell’obbligo di repêchage nonché le conseguenze in caso di violazione.

Come noto, ai fini del riconoscimento della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la prova dell’effettiva soppressione della posizione lavorativa cui era adibito il dipendente è necessaria ma non sufficiente.

Oltre alla riferibilità della soppressione a decisioni datoriali dirette ad incidere sulla struttura e sull’organizzazione dell’impresa, infatti, è necessario dimostrare l’impossibilità di ricollocare utilmente il lavoratore in esubero, c.d. repêchage.

L’obbligo di repêchage non è regolato dal legislatore ma rappresenta una creazione della giurisprudenza, che ne definisce limiti e sanzioni anche alla luce delle modifiche normative aventi ad oggetto i licenziamenti (D. Lgs. 23/2015) nonché altri aspetti del rapporto di lavoro (art. 2103 cod. civ.).


LIMITI

Con la sentenza n. 11413 pubblicata in data 11.05.2018, la Corte di Cassazione ha escluso la violazione dell’obbligo di repêchage in caso di eterogeneità tra la posizione lavorativa soppressa e quelle vacanti al momento del licenziamento.

Nel caso di specie, la società datrice di lavoro licenziava un dipendente per soppressione della posizione lavorativa, e successivamente assumeva nuovo personale per posizioni equivalenti. Il ricorrente quindi impugnava il licenziamento sostenendo la violazione dell’obbligo di repêchage da parte della società per non aver adibito il medesimo a tali posizioni, peraltro vacanti già al momento del licenziamento.

La Corte di Cassazione, richiamando l’accertamento in fatto svolto dalla Corte d’Appello, ha rigettato le censure del ricorrente rilevando che “l’eterogeneità del corredo di capacità e di esperienze professionali rispetto alla diversa posizione lavorativa libera in azienda lascia venire meno il fondamento stesso dell’obbligo di repêchage, che evidentemente postula che le energie lavorative del dipendente siano utilmente impiegabili nelle alternative mansioni che al medesimo debbano essere assegnate”.

Infine, la Corte ha escluso la violazione dell’obbligo di repêchage anche alla luce del fatto che le nuove assunzioni erano state effettuate oltre 6 mesi dopo il licenziamento “sicché del tutto ragionevolmente detta nuova assunzione può essere stata determinata da esigenze sopravvenute e non può considerarsi indizio inequivoco che – già all’epoca del licenziamento del (Ricorrente) – tale posizione lavorativa risultasse vacante tanto da poter essere ricoperta dal medesimo”.


SANZIONI

Con un’altra recente sentenza la Suprema Corte si è espressa sulle conseguenze in caso di violazione dell’obbligo di repêchage (Cass. n. 10435 depositata il 02.05.2018).

Come noto, il comma 7 dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori prevede che il Giudice possa applicare la tutela reintegratoria ex comma 4 del medesimo articolo, nel caso di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo».

La pronuncia in commento analizza il citato comma 7 sotto un duplice profilo: la nozione di “fatto posto a base del licenziamento” e i criteri in base ai quali disporre la tutela reintegratoria o meramente indennitaria.

Con riferimento al primo profilo, la Corte ha stabilito che qualora sia dimostrata in giudizio l’effettiva soppressione della posizione lavorativa in esubero, ma non l’impossibilità di repêchage, si rientri nell’ipotesi di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento».

Secondo i giudici della Suprema Corte, sia l’esigenza di soppressione del posto di lavoro che l’impossibilità di repêchage rientrano nella nozione di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, pertanto “il riferimento legislativo alla «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» va inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di legittimità della fattispecie”.

Di conseguenza, mancando anche soltanto uno di questi presupposti – nel caso di specie, la prova dell’impossibilità di repêchage – si rientra nell’ipotesi di cui al comma 7 dell’art. 18 citato, con le relative conseguenze sanzionatorie.

A tal proposito, spostando l’attenzione sul secondo profilo analizzato dalla Suprema Corte, si rinviene la portata innovativa della pronuncia in commento.

In via preliminare, i Giudici della Suprema Corte hanno ribadito come la facoltà di disporre la reintegra sia concessa solo in caso di «manifesta» insussistenza del fatto, ovvero ipotesi di “evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso”.

In un simile scenario, la Corte rileva che i criteri in base ai quali il giudicante dovrà individuare la tutela da applicare possano essere desunti dai principi generali forniti dall’ordinamento in materia di risarcimento del danno, con particolare riferimento al “concetto di eccessiva onerosità” applicato, ad esempio, quando il giudice ritenga di sostituire il risarcimento per equivalente alla reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 cod. civ. .

Secondo i Giudici della Suprema Corte, l’applicazione del concetto di eccessiva onerosità permetterebbe al giudicante di valutare se, in base alle circostanze del caso concreto, l’applicazione della tutela reintegratoria possa rivelarsi eccessiva, consentendogli “di optare – nonostante l’accertata manifesta insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del licenziamento – per la tutela indennitaria”.


CONCLUSIONI

Anche alla luce delle citate pronunce della Suprema Corte, posta l’effettiva esigenza di soppressione di una posizione lavorativa, resta attuale la necessità di una previa approfondita analisi della struttura organizzativa prima di procedere con il licenziamento, stante gli effetti della violazione dell’obbligo di repêchage sulla legittimità del licenziamento economico.